Iletisim Publishing

Orhan Pamuk

I. Profilo
II. "La nuova vita" - Recensione

di Mario Biondi ©

I. Profilo

(1993)

A cavallo del nostro secolo, nella turco-greca città di Manisa, l’antica Magnesia del Sipilo, non lontano da Smirne, viveva un giovanotto che non poteva passare inosservato. Non soltanto per la sua intraprendenza, ma soprattutto per una singolarità fisica: era albino. Tra i brunissimi turchi, greci, armeni, laz, curdi, azeri, siriaci — e via enumerando — che popolano l’Anatolia, la pelle, gli occhi e i capelli chiari hanno sempre suscitato grande interesse. Rispetto. Vera e propria attrazione. In forza dell’aura di candore che lo connotava, il giovanotto di cui stiamo parlando si guadagnò il nomignolo di «Pamuk», ovvero «Cotone». Il grande impero ottomano, ormai lontano quattro secoli e mezzo dalla conquista di Costantinopoli e due dall’assedio di Vienna, era agli sgoccioli. Aveva suscitato straordinari terrori in regnanti e popoli d’Europa e autentiche passioni in viaggiatori, scrittori, musicisti, pittori. Ora suscitava le fameliche attenzioni di governi stranieri, banche e speculatori. Lo chiamavano il Tacchino (questo vuole dire Turkey in inglese), il Grande Malato d’Europa. Un intero universo — multirazziale, multilingue, multireligioso — in ginocchio, affranto, stremato, da modernizzare, da ristrutturare, da ricostruire. Da «europeizzare». Elettricità, gas, telegrafo, telefono, poste, ferrovie da istallare. Miniere da sfruttare. Il controllo dei Dardanelli, grande e angusta porta di collegamento dell’impero zarista (attraverso il Mar d’Azov e il Mar Nero) e dei Balcani (attraverso il Danubio) con il Mediterraneo, ovvero con il mondo intero. Le antiche strade carovaniere che costituivano tuttora l’estrema ramificazione della Via dell’India. Il petrolio delle remote province medio orientali (Arabia, Iraq, quello che sarebbe pentato il Kuwait della discordia), sui cui i più occhiuti già posavano sguardi famelici. Il cotone, persino.

Lo abbiamo detto: risulta che il giovane «Cotone» fosse intraprendente. Moderno. Non poteva dunque non simpatizzare per le idee dei Giovani Turchi, rivoluzionari ma soprattutto modernizzatori. Assistette alla deposizione dell’ultimo grande sultano ottomano, il discusso Abdulhamit II, alla cacciata dei suoi imbelli successori, all’istaurazione della repubblica, al trionfo del generalissimo Mustafa Kemal detto Atatürk. Il grande tema economico-politico del momento, la Modernizzazione, l’Europeizzazione della Turchia, era incorniciato nel quadro di un problema strutturale di fondo: i trasporti nel paese, che per quanto severamente mutilato dall’infelice esito della Grande guerra e dal conseguente crollo dell’impero ottomano insieme agli altri imperi, continuava a essere sterminato, contraddittorio, multirazziale. La convivenza tra greci e turchi, nella zona di Smirne, si era fatta assai complicata. Quando non erano i primi ad attaccare i secondi, erano i secondi a sterminare i primi. Durante la sciagurata guerra greco-turca del ’22, e soprattutto alla fine, fu il massacro. A quel punto «Cotone» se n’era già molto probabilmente andato a vivere a Istanbul. A mettere a profitto la propria intraprendenza. Ad arricchirsi. Nelle ferrovie, appunto.

La sua famiglia, tipico esempio della nuova borghesia imprenditoriale turca formatasi agli albori della Repubblica, iniziò infatti a prosperare nella costruzione delle ferrovie interne turche. Negli anni Trenta, insieme al calendario e all’alfabeto occidentale — oltre a cento altre modernizzazioni — la repubblica kemalista impose anche l’obbligatorietà del cognome. Fino ad allora si era usato soltanto il nome, accompagnato da un nomignolo, quasi sempre legato al mestiere o a una qualità fisica o caratteriale. «(Quello) del Filo», per esempio, ovvero Sicimoglu; «Lupo Solitario», ovvero Tekkurt; «Fuoco», ovvero «Atesh». E così via. Anche «Cotone», ovvero «Pamuk». La già prospera famiglia del nostro «Cotone» trasse il proprio cognome da quel nomignolo: si chiamò Pamuk.

Famiglia più che prospera: avviata a pentare eminente. Tutta raccolta ad abitare in una bella palazzina di Istanbul, stretta stretta e a più piani, nell’elegante quartiere di Nisantasi (la Roccia del Bersaglio), verdissima di giardini, alta sopra il palazzo imperiale di Dolmabahce e l’imbocco del Bosforo. Una casa che sopravvive tuttora, davanti alla venerata moschea di Tesvikyie, con la sua aria delabré da dimora di grandi signori un po’ decaduti. Una casa che non è quella del silenzio, ma che di essa è stretta parente. È lì che, dopo esservi nato e cresciuto, lavora l’ancora giovane scrittore Orhan Pamuk. Quarantenne. È nato troppo tardi per vivere la gloriosa rivoluzione repubblicana dei tempi del nonno, ma porta nell’intelligenza e nella scrittura tutti i tormenti di crescita della Turchia odierna, paese contraddittoriamente, tumultosamente impegnato nel definitivo processo di modernizzazione. Rovinosa inflazione, scontri di classe e di piazza, avventure politiche di estrema destra, integralismo religioso, terrorismo di entrambi i colori, guerra di bande, esecuzioni sommarie, colpi di stato di un esercito orgoglioso e geloso della propria tradizione kemalista — severamente repubblicana e laica —, la ripetuta restituzione del potere a una democrazia sempre poco salda sulle gambe eppure sempre miracolosamente capace di rinnovarsi. E, sopra a tutto, il turbinoso sviluppo economico, la disordinata adozione di modelli occidentali non sempre di specchiata virtù. E una gioventù, ovviamente, calata fino alle ossa, ai gangli nervosi, al sangue in tale situazione di frenetico penire. Tutto ciò fa da sfondo allo splendido lavoro narrativo di Orhan Pamuk, in cui la raffinata tradizione letteraria persianeggiante ottomana si fonde con i modi del moderno narrare occidentale, da lui perfettamente conosciuti e assimilati, a generare un ibrido di una qualità tale da suscitare acclamazione ben al di fuori della Turchia.

Orhan Pamuk lo sento nominare per la prima volta nella primavera dell’87. Nella comoda, disinvolta casa di Yashar Kemal, riconosciuto sciamano delle lettere turche, padre putativo di tanta cultura e politica di quel paese, dall’illegale partito comunista di un tempo fino ai film di Yilmaz Güney. Estrema periferia istanbulina, verso il Mar di Marmara. Verde, silenzio. Ottimo pranzo anatolico. Cordialità cosmopolita. Intervisto il grande vecchio che porta sul viso i segni delle sue battaglie. «Qual è la situazione dei narratori giovani in Turchia?» gli chiedo tra l’altro. «Quali nomi indicherebbe?» «Una situazione tutt’altro che florida», risponde. «Mi sentirei di indicare soltanto il nome di Orhan Pamuk, che a trentatrè anni ha già scritto due romanzi di notevole qualità, dei quali il primo è stato recentemente pubblicato in Francia da Gallimard.» Non era ancora arrivato il successo americano, la più che calorosa accoglienza fatta sul New Yorker al giovane sconosciuto, appartenente a una cultura tanto decentrata, dal vecchio leone delle lettere John Updike.

Dopo di allora, in Turchia, ho infinite occasioni di sentir parlare di Pamuk. Con entusiasmo, con passione, con reverenza, addirittura, nonostante l’età. Lo conosco soltanto l’estate scorsa, nella famosa casa di Nisantasi. La «Pamuk Apartman», come dice ancora oggi la targa dell’indirizzo stradale. La palazzina per appartamenti dei Pamuk: una dimora gentilizia. Salgo con un traballante ascensore all’ultimo piano. Entro in un appartamento che potrebbe essere la tana di uno scrittore americano alla Raymond Chandler: penombra fitta, sigaretta che arde sul portacenere, intenso odore di caffè, vecchia macchina per scrivere con foglio inserito, pile di libri ovunque. A farmi gli onori di casa è lui, l’ultimo discendente della famiglia «Cotone», il quarantenne scrittore di successo internazionale. Il suo terzo romanzo, Roccalba, sta per essere pubblicato anche in Italia e il secondo, La casa del silenzio, vi è annunciato. Il quarto, Kara Kitab (Il libro nero), gli ha addirittura guadagnato la fama di Umberto Eco di Turchia. Imbarazzato, lui si schermisce. Ha lavorato per tre anni alla Columbia University di New York, è «occidentale» in tutti i sensi. Ma «occidentale» è un’espressione che non vuole nemmeno sentire pronunciare. «I miei libri», dice, «li ho scritti in buona parte proprio per affermare che Est e Ovest non esistono. Per me il mondo è un unicum. Noi, a Oriente, e voi, a Occidente, siamo i rappresentanti di due facce della stessa cultura.» Ciò vale per tutti i suoi libri — come potrà costatare il lettore di La casa del silenzio —, ma in particolare, quasi febbrilmente, per Roccalba, romanzo filosofico ambientato negli anni d’oro dell’impero ottomano, quando l’incontro/scontro fra Ovest ed Est era rappresentato dai turchi che mettevano l’assedio a Vienna e più che mai puntavano alla conquista della mitica Kizil Elma, la «Mela Rossa»: Roma.

Poi le cose sono cambiate profondamente. Ma il fascino delabré della Istanbul di oggi non può far dimenticare i perduti splendori della capitale che fu Costantinopoli. Orhan spiega che quando era bambino, lì attorno la città era un giardino. Tutti i Pamuk vivevano in quella casa quasi-del-silenzio. Genitori, zii, cugini. Adesso si sono sparpagliati. Lui vive sulla costa asiatica del Bosforo, con la moglie e la bambina. Alla Pamuk Apartman ormai ha soltanto questo studio, dove viene a lavorare di notte. È un animale notturno. «Tutto attorno c’è un gran rumore», spiega, «e cemento, ovunque. Ma i cambiamenti di superficie non significano niente: a conoscerla davvero, questa è la Costantinopoli di sempre. Il suo fascino è intatto.»

Un po’ ammaccato, magari, ma è così. Un fascino fatto di cento lingue che continuano a incrociarsi, di febbrili attività levantine mescolate a un formidabile sviluppo industriale, a colossali investimenti internazionali. Il tutto però ammantato da un arcano senso di precarietà, come in equilibrio instabile. «Precarietà?» chiede Pamuk, perplesso. Non è convinto. Parliamo a lungo. Di questo e altro. Letteratura, cinema, storia, politica. La sua cultura è inquietamente cosmopolita. Ha studiato nella migliore scuola americana di Istanbul, il famoso Robert College. Poi è andato a vivere per un po’ in America. Ma è rimasto un perfetto padrone di casa a la turka. Quando me ne vado mi accompagna fino alle scale. «No», si scusa, «l’ascensore si può prenderlo soltanto in salita. Se lo si usa in discesa, si rompe.» Ha ragione lui: Istanbul è sempre la stessa. E con essa anche la Turchia.

E di questa Istanbul, di questa Turchia moderna e precaria, eterna e traballante, Pamuk ci offre un quadro sfolgorante, problematico, inquietante in La casa del silenzio, grande romanzo di sentimenti e di contrasti personali in una società, quella turca, decentrata ma immersa a fondo nella sensibilità e nelle lacerazioni del mondo contemporaneo. Molto di ciò che Pamuk vi racconta appartiene direttamente al suo background famigliare e culturale.

Nel nonno del romanzo, illuminato uomo di scienza costretto all’esilio in periferia — nella Casa del silenzio, appunto — per essersi messo in contrasto con le frange più rampanti del movimento dei Giovani Turchi, vi è molto probabilmente parecchio degli impulsi che motivavano i giovani come l’avventuroso «Cotone». Il cognome da lui scelto negli anni Trenta per sé e per la famiglia, nel romanzo ha una funzione cruciale: è una scelta che denota un intero universo culturale. In una società appena uscita dal medioevo ottomano e ancora intrisa di pregiudizio religioso islamico, il progressista dottor Selaettin decide di elevare un inno personale alla scienza occidentale: si chiamerà Darvinoglu, ovvero «(Quello) di Darwin». E nel suo scontro con la moglie vi è un intero universo di rapporti interpersonali: ancora una volta lo scontro tra il Nuovo e il Vecchio, che non di rado si connota di vischioso amore (nel romanzo accade almeno due volte). Ed è spesso il Vecchio a spuntarla. O comunque a tenere duro fino alle ultimissime conseguenze.

Per quanto ormai quasi remoto, il punto cruciale per la storia recente della Turchia, il momento della grande frattura, l’evento da cui ogni fatto, ogni comportamento, ogni sentimento, per quanto privato, è tuttora indelebilmente connotato e marchiato, è sempre quello: lo scontro originale tra Vecchio e Nuovo, il cruento passaggio dall’impero alla repubblica. Così un intero universo di storia e politica recente si dispiega nelle vicende private degli ultimi esponenti della eminente e progressista famiglia Darvinoglu, nel loro contrasto con il cugino bastardo — dall’emblematico cognome Karatas, ovvero Pietra Nera —, una giovanissima testa calda appartenente al mondo sottoproletario e quindi quasi per atavica condizione universale condannata a legarsi all’estrema destra fascista e assassina. Quella destra che, dalla Turchia, si lega alle vicende del nostro paese attraverso l’enigmatica figura di Mehmet Ali Agca (si pronunci Agià).

Nuovo contro Vecchio, ancora una volta, progressismo contro reazione. Ma, soprattutto, in questo romanzo, donna proiettata verso il Nuovo, contro maschio retrivo, ancorato al Vecchio. Una figura che è una realtà radicata nella società turca — dalla solidaristica cultura protofemminista dell’harem ottomano alle donne combattenti per Kemal Atatürk —, e che nello specifico è Nilgün Darvinoglu, la donna (emblema di progressismo) cui è dedicato anche il romanzo Roccalba. Sono elementi — storici, culturali, politici — di cui si deve assolutamente tenere conto leggendo i magistrali intrecci narrativi di Orhan Pamuk. Questioni da cui dipendono in larga misura la corretta comprensione e l’adeguato godimento di romanzi che dalla decentrata ambientazione locale assurgono a un respiro universale.

Introduzione a: Orhan Pamuk, La casa del silenzio , Frassinelli

II. "La nuova vita"

(2000)

Come fa un io narrante, che nelle ultime righe di un romanzo dice: "Capii di essere arrivato alla fine della mia esistenza", a narrare questa sua trascorsa esistenza? In quale vita lo fa, in quale realtà "altra"? È l'ambiguità di fondo del quarto (e penultimo) romanzo del giovane turco Orhan Pamuk, La nuova vita, ed è il leit motiv di tutta la sua opera: il doppio, le infinite possibili facce del reale, la straniante incertezza di segni e significati. Il "doppio" del suo primo romanzo era l'incontro-scontro tra la cultura ottomana e quella occidentale, viste come due facce della medesima medaglia. Tali due facce, nel secondo romanzo, pentavano quelle del "vecchio" e del "nuovo" nella società turca. Nel terzo, l'affascinante e oscuro Il libro nero, di gran lunga la migliore riuscita di Pamuk, il" doppio" si sdoppiava e sfaccettava fino a raggiungere un numero infinito di possibili significati e realtà. A sorreggere il magnifico, inquietante affresco, una doviziosa ricchezza di aneddoti, racconti interni e citazioni da culture perse, dal misticismo sufi alla letteratura occidentale antica e classica (ma la citazione di Dante era sbagliata).

Il moltiplicarsi dei "doppi" si ripete in La nuova vita, ma con una certa stanchezza, riducendosi infine a un lamento che rischia di apparire stucchevole: se cultura turca e cultura occidentale non riescono veramente a essere due facce della stessa medaglia, secondo Pamuk ciò sarebbe dovuto alla perniciosa aggressività della seconda, che sta sommergendo la prima. È così, ma è d'obbligo ricordare che la cultura turca appare perlomeno ansiosa di farsi sommergere. Per costatarlo basta trascorrere poche ore tra le orde di popolino britannico che letteralmente devastano le località turistiche turche (e le loro civilissime tradizioni): sono stati i turchi a costruire in tutta fretta i faraonici aeroporti necessari per accogliere i loro charter, a fondare compagnie aeree ad hoc, a spianare spiagge, a costruire alberghi, schiamazzanti discoteche eccetera. A fare tutto ciò è stata la borghesia imprenditoriale turca, non quella occidentale, quella borghesia turca a cui Pamuk appartiene a pieno titolo: persamente da quelli del protagonista del romanzo, i suoi antenati lavoravano nelle ferrovie non già in veste di lavoratori ma di costruttori. Non è questione di poco conto.

Parlare della vicenda in sé, nel proliferare dei "doppi" di pagina in pagina, è difficile. Che cosa succede veramente? Il viaggio dello stralunato protagonista alla ricerca degli infiniti "doppi" di se stesso e della propria realtà, è perlomeno di oscura comprensibilità. Il libro da cui egli riceve l'illuminazione assomiglia in maniera sospetta a Il libro nero. La traduzione, accurata e brillante, cerca di venire in aiuto al lettore con una puntigliosità che è encomiabile ma rischia un qualche squilibrio. Perché tradurre "Yesilirmak" come "Rio Verde", visto che è uno dei "grandi fiumi" (irmak) della Turchia (oltre che culla della civiltà ottomana)? Perlomeno altrettanto necessario sarebbe stato tradurre i nomi di certe località emblematiche della desolata vicenda, come Viranbag, che significa appunto "Giardino della desolazione", e soprattutto la meta finale del lungo vagare senza speranza del protagonista, Sonpazar, che significa "Ultimo mercato".

Orhan Pamuk, La nuova vitap, Einaudi